Torino Mini Maker Faire, ovvero l’umanesimo in pratica.

Papà MI Fai Un Castello alla Torino Mini Maker Faire

Papà mi fai un castello

E così, il 6 giugno sarò alla Torino Mini Maker Faire, lo stupefacente festival della creatività e dell’innovazione. Tra le molte pazzesche iniziative, io terrò due laboratori, in cui costruiremo sommergibili. Questa è la notizia.

Il commento è che ne sono felice, e sorpreso.
Ogni volta che sto al tavolo a costruire giocattoli sono felice e sorpreso. Perché nella vita non avrei mai immaginato che mi sarei trovato, un giorno, con le mani e la mente impegnate nella creazione. Ho sempre pensato che la mia attitudine, da buon umanista, fosse di leggere e scrivere. La vita però mi ha sempre portato altrove: a lavorare nel sociale, abbastanza lontano dalla teoria e molto vicino alle persone; a provare piacere nel costruire con le mani oltre che battere sulla tastiera.

Mi sono sempre pensato dotato di scarsa manualità.
Mi sono sempre pensato adatto al concetto.
Mi sono sempre pensato: ecco l’inghippo.
Ho messo…

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Scemo ma bravo. (Padri separati e capricci)

Il vero motivo per cui dovete saper dire no ai vostri figli.

Scemo ma bravo. (Padri separati e capricci).

Imbrogli

Il secondo grande imbroglio consiste nel fatto che tutta la vita studi per offrire il tuo lavoro, per poi trovarti a vivere solo di quello, o chiederne uno qualunque, che il lavoro è un valore di per sé.

Il primo grande imbroglio, infatti, è che il lavoro sia più importante della vita, dell’universo, e tutto quanto. Il lavoro deve servire noi, non noi lui.

La giusta sanzione

Arriva questo tizio ai tavolini di un bar di Piazza Vittorio. Anziano, capello lungo, voce roca, sorriso di uno che ne sa. Saluta il suo amico. Il suo amico non fa altro che richiamare il suo labrador che scorrazza tra i tavoli.

Quello Che Ne Sa vede due vigilesse avvicinarsi alla sua auto, ferma in divieto. E’ una Porche. Urla alle vigilesse: Prendo solo un caffè, dai.

Le vigilesse lo guardano come dire: E a noi?

Quello del Labrador dice: Vai, non farti mettere la multa. Poi cerca il cane con lo sguardo e lo chiama ancora.

Quello Che Ne Sa dice: ma va’, tanto le multe non le pago mai, io. E ride passandosi la mano grassa tra i capelli.

Le vigilesse scrivono il verbale. Quello Che Ne Sa le guarda ridendo. Me ne frego, dice.

Allora io penso: E se invece della multa ti facessero una bella riga lungo tutta la fiancata con un cacciavite? Se ti bucassero tutte e quattro le gomme? Se ti frantumassero tutti i finestrini? La prossima volta, la metteresti di nuovo la tua Porche in divieto?

Non credo proprio. c’è qualcosa di profondamente errato nel nostro sistema sanzionatorio.

E poi penso: e tu, con ‘sto cazzo di labrador, perchè non lo leghi, santodio?

Per mia figlia una banana non è un telefono

Mia figlia (18 mesi) prende il telecomando della tv, se lo mette all’orecchio come fanno i grandi col cellulare, e dice Ciao Stella (Stella è la sua amica d’infanzia, o meglio, quella che tra diciott’anni verrà citata come l’amica d’infanzia).

A pranzo io ho preso una banana, l’ho avvicinata all’orecchio fingendo di chiamare Stella, e poi l’ho passata a mia figlia. Lei mi ha guardato come se fossi scemo. Cioè, proprio come se io stessi seriamente pensando che con quella che era chiaramente una banana si potesse comunicare con Stella. Era allibita, mi spiego?

E lo ero anche io. Perché diamine il telecomando sì e la banana no? Per me, una banana assomiglia molto di più a un telefono che non un telecomando.

Allora, in bagno, ho fatto lo stesso esperimento con la doccia. Il diffusore, intendo. Quello che sembra inequivocabilmente una cornetta del telefono, con solo il ricevitore, va bene, ma si capisce che è un telefono, se lo avvicini all’orecchio. Niente da fare. Stessa scena. Mio padre è pazzo, pensava Emma.

Avete già capito. Io non ho telefoni fissi in casa. Se l’avessi, sarebbe più simile a un cellulare che a una cornetta. Emma non ha mai visto una cornetta telefonica. Non può associarne la forma a quella di una banana o di una doccia. Con buona probabilità, non la vedrà mai, e per tutta la vita si chiederà cosa diamine intendessi fare io con quella banana.

Ecco come cambia il mondo.

Onore alla laurea

Ieri sera la trasmissione di Fazio e Saviano a ha superato il 57% di share tra i laureati. Non so esattamente cosa significhi, però io sono laureato e ho visto la trasmissione: quindi ho contribuito a questo eclatante successo antiberlusconiano.

Tengo a sottolinearlo perché tento ogni giorno di giustificare in qualche modo il fatto di essere laureato. In discipline umanistiche. Voglio dire: ho dato decine di esami, ho scritto trecento pagine di tesi, la mia famiglia ha pagato le tasse. Ho il titolo accademico. Qualcosa deve pur voler dire, santodio.

Il lavoro che faccio, per dire, ha una tariffa oraria piuttosto elevata, ma non richiede la laurea. Ho colleghi che hanno la terza media. Non ho niente contro chi ha iniziato a lavorare presto: anzi, ha fatto bene. E la cultura guadagnata solo per interesse personale ha qualcosa che gli studi istituzionali non riescono a dare. Il dato angosciante è che con la mia laurea io non potrei mai guadagnare tanto.

Ho fatto mestieri da laureato: guadagnavo due soldi, lavoravo molto senza avere nemmeno bene idea di quello che davvero stavo facendo, e appena azzardata una critica mi han fatto fuori (dal no Profit, non dalla Monsanto). Naturalmente le critiche grazie a cui mi hanno fatto fuori sono dipese proprio dal fatto di aver studiato. L’università umanistica mi ha fornito gli strumenti necessari per concludere che ero circondato da fregnacce e arrivisti mascherati da eroi del sociale, e l’esempio dei giganti del pensiero sulle cui spalle ci fanno sedere mi ha impedito di stare zitto. Ingenuo? Può darsi. Anzi: magari.

Ho accantonato presto l’idea di cercare qualcosa da fare coerente con i miei studi. Anche lontanamente. E non solo per l’erede in arrivo e l’urgenza di sicurezza economica. Ma anche perché ne avevo le palle piene. Ho preferito riciclare le competenze professionali maturate mentre, studente universitario, affondavo le meningi su migliaia di pagine di pensieri densi, eleganti e inutili.
Nel tempo libero (e vista la crisi di tempo libero ne ho), posso sfruttare come meglio credo i succosi frutti della mia laurea.

Ad esempio, grazie alla mia laurea, posso avere la netta e costante e precisa cognizione di come la nostra generazione se l’è presa nel sedere. Posso illustrarlo con dati alla mano e una notevole efficacia argomentativa. .

Posso osservare meglio di altri come il mondo vada a rotoli. E, certo, posso anche attuare qualche minuscolo e isolato comportamento per evitare di partecipare completamente all’autodistruzione.

Posso immaginare possibili alternative e rammaricarmi della loro probabile inapplicabilità.

Posso lamentarmi con profonda cognizione di causa.

(potrei anche smettere di lamenentarmi, rimboccarmi le maniche ed entrare a far parte di uno delle centinaia di associazioni, movimenti, partiti, gruppuscoli, circoli, fratellanze, eresie che tentano di dire la loro sul mondo e cambiare le cose: già ampiamente fatto e già ampiamente constatato come si scivoli in fretta nel parlarsi addosso, nell’arrivismo e nell’inconcludenza. Preferisco restare inconcludente da solo e parlarmi addosso sul blog)

Potrei, se mi interessasse, pretendere di essere chiamato “dottore”.

Per il resto, a parte entrare a pieno diritto nelle statistiche sullo share di RaiTre, la mia laurea non serve a un accidente. Di costruttivo, voglio dire. Aumenta solo il grado di frustrazione. E mi permette di scrivere post come questo (in effetti, non laureato, come avrei speso quesi venti minuti? forse lavorando).

Il paradosso di tutto questo è che, probabilmente, se si verificasse un cronosisma e tutto tornasse a dieci anni fa, rifarei esattamente tutto, o quasi, proprio come i protagonisti del romanzo di Vonnegut. Per testardaggine, temo.

E mi troverei comunque qui, a scrivere questo post. Esattamente dove dovrei essere.

 

 

 

 

La vita davanti a sè, Romain Gary

“La gente tiene alla vita più che a tutto il resto, è anche buffo se si pensa  a tutte le belle cose che ci sono al mondo”

O anche

“Il signor Hamil è un grand’uomo, ma le circostanze non gli hanno permesso di diventarlo”

Basta aprire a caso il romanzo di Gary  per cader folgorati dal pensiero di Momò, piccola voce di arabo orfano, curioso e battagliero che vive con altri figli di buona donna sotto la protezione della maestosa Madame Rosa, nella Parigi multietnica degli anni Cinquanta.

Qualcuno ha definito questo un “piccolo grande romanzo”. Togliamo pure il piccolo. Questo è un grandissimo romanzo. Da ogni punto di vista. E lo resterebbe anche se uno qualunque dei tratti che disegnano la sua perfezione fosse cancellato. Se il linguaggio fosse meno autenticamente mimetico: oggi è frequente, almeno nella mia esperienza di lettore, imbattersi in autori che spacciano per dodicenni o quindicenni protagonisti che ragionano come adulti e rivelano l’appartenenza anagrafica solo attraverso goffi espedienti gergali o riferimenti alla “cultura giovanile”. Momò è invece autenticamente un bambino che vuole e deve sentirsi adulto. Sistema e descrive la realtà con gli strumenti a sua disposizione, e risulta sagace e pungente perché il suo sguardo è assolutamente nuovo ed autenticamente originale. Così come il suo linguaggio: frasi che, ad un’attenta lettura, dal punto di vista grammaticale non starebbero in piedi riescono insieme a rispecchiare il modo di pensare di un bambino e a trasmettere il significato meglio del più corretto dei periodi. Ecco la mimesi.

La vita davanti a sè sarebbe meraviglioso anche se i personaggi fossero meno spettacolari e palpabili, se l’atmosfera fosse meno coinvolgente, se la vicenda fosse meno toccante, se il senso di tutto, che cresce nel lettore stimolato e non costruito, fosse meno profondo.

Secondo me, per dire, La vita davanti a sè il pur grandioso giovane Holden se lo mangia senza nemmeno accorgersene. Notazione puerile, me ne rendo conto: inutile metter a confronto i libri, è pur sempre questione di gusti. Ma con tutto il parlare che si fà del Caulfield e di suo papà Salinger, andrebbe spesa qualche parola anche per Momò, e per il suo autore Romain Gary, il quale pubblicò La vita davanti a sè sotto lo pseudonimo di Emile Ajar e con questo nome vinse il Goucourt. Come Romain Gary, infatti, era considerato un autore al tramonto.

In realtà è sempre stato un gioco amato di Gary (al secolo Roman Kacew; “Gary” in russo significa ardere), il cambiar nome e l’osservare da una certa distanza, non sempre divertita, l’ossessione degli uomini per le identità e le definizioni, da autentico cosmopolita e avventuriero quale era.

Onestamente, la verità

Se qualcuno vi dice “voglio esse onesto con te, e dirti la verità”, fatemi il favore: non credetegli. Non solo perché è una premessa di sincerità che tradisce in realtà l’abitudine a non essere onesto, se non in circostanze particolari.

Non credetegli, ma per un motivo molto più semplice: nessuno sa quale sia la verità, e nessuno può affermarlo. Dio, forse: ammesso che esista, e ammesso che gli interessi.

Non diciamo mai la verità, noi. Non possiamo: possiamo affermare quello che abbiamo visto, udito, di cui siamo fortemente convinti, ed esprimiamo opinioni o punti di vista, nella maggior parte dei casi.

Ma non è detto che quella sia la verità. Meglio ancora: non è detto che quella che per noi è una verità, lo sia anche per qualcun altro, anche se facciamo di tutto per convincerlo, al punto di premettere la nostra più sincera onestà prima di esprimere un’opinione –argomentata e circostanziata, intelligente e acuta, ma pur sempre un’opinione.

La verità non esiste? Mentirei se dicessi che lo so.

Di solito, però, quando esprimiamo un’affermazione oggettiva (scientifica, probabilmente: ad esempio, che la Terra ruota intorno al sole e gli esseri umani sono bipedi), non abbiamo bisogno di premettere la nostra onestà. E anche riguardo a certe verità cosiddette “morali”, come ad esempio che uccidere o rubare è sbagliato, non abbiamo bisogno di assicurare il nostro interlocutore in merito alla nostra credibilità.

Non so se la verità esiste: credo che quanto abitualmente chiamiamo verità discenda dall’accordo tra gli uomini, i quali stabiliscono quale essa sia, e la rendono così universale, se non oggettiva.

Però so che se qualcuno premette che è onesto o sincero, probabilmente (a meno che non sia una specie di agente segreto che in quel momento è disposto a condividere con me un Segreto di Stato) sta solo cercando di sostanziare quella che non altro che un’opinione, il più delle volte davvero poco argomentata.

“Sarò onesto, e ti dirò come la penso”: questa è la frase corretta: onestà è ammettere di non sapere, e nonostante questo avere il coraggio di farsi un’idea. Non di avere la verità in tasca.