Ieri sera la trasmissione di Fazio e Saviano a ha superato il 57% di share tra i laureati. Non so esattamente cosa significhi, però io sono laureato e ho visto la trasmissione: quindi ho contribuito a questo eclatante successo antiberlusconiano.
Tengo a sottolinearlo perché tento ogni giorno di giustificare in qualche modo il fatto di essere laureato. In discipline umanistiche. Voglio dire: ho dato decine di esami, ho scritto trecento pagine di tesi, la mia famiglia ha pagato le tasse. Ho il titolo accademico. Qualcosa deve pur voler dire, santodio.
Il lavoro che faccio, per dire, ha una tariffa oraria piuttosto elevata, ma non richiede la laurea. Ho colleghi che hanno la terza media. Non ho niente contro chi ha iniziato a lavorare presto: anzi, ha fatto bene. E la cultura guadagnata solo per interesse personale ha qualcosa che gli studi istituzionali non riescono a dare. Il dato angosciante è che con la mia laurea io non potrei mai guadagnare tanto.
Ho fatto mestieri da laureato: guadagnavo due soldi, lavoravo molto senza avere nemmeno bene idea di quello che davvero stavo facendo, e appena azzardata una critica mi han fatto fuori (dal no Profit, non dalla Monsanto). Naturalmente le critiche grazie a cui mi hanno fatto fuori sono dipese proprio dal fatto di aver studiato. L’università umanistica mi ha fornito gli strumenti necessari per concludere che ero circondato da fregnacce e arrivisti mascherati da eroi del sociale, e l’esempio dei giganti del pensiero sulle cui spalle ci fanno sedere mi ha impedito di stare zitto. Ingenuo? Può darsi. Anzi: magari.
Ho accantonato presto l’idea di cercare qualcosa da fare coerente con i miei studi. Anche lontanamente. E non solo per l’erede in arrivo e l’urgenza di sicurezza economica. Ma anche perché ne avevo le palle piene. Ho preferito riciclare le competenze professionali maturate mentre, studente universitario, affondavo le meningi su migliaia di pagine di pensieri densi, eleganti e inutili.
Nel tempo libero (e vista la crisi di tempo libero ne ho), posso sfruttare come meglio credo i succosi frutti della mia laurea.
Ad esempio, grazie alla mia laurea, posso avere la netta e costante e precisa cognizione di come la nostra generazione se l’è presa nel sedere. Posso illustrarlo con dati alla mano e una notevole efficacia argomentativa. .
Posso osservare meglio di altri come il mondo vada a rotoli. E, certo, posso anche attuare qualche minuscolo e isolato comportamento per evitare di partecipare completamente all’autodistruzione.
Posso immaginare possibili alternative e rammaricarmi della loro probabile inapplicabilità.
Posso lamentarmi con profonda cognizione di causa.
(potrei anche smettere di lamenentarmi, rimboccarmi le maniche ed entrare a far parte di uno delle centinaia di associazioni, movimenti, partiti, gruppuscoli, circoli, fratellanze, eresie che tentano di dire la loro sul mondo e cambiare le cose: già ampiamente fatto e già ampiamente constatato come si scivoli in fretta nel parlarsi addosso, nell’arrivismo e nell’inconcludenza. Preferisco restare inconcludente da solo e parlarmi addosso sul blog)
Potrei, se mi interessasse, pretendere di essere chiamato “dottore”.
Per il resto, a parte entrare a pieno diritto nelle statistiche sullo share di RaiTre, la mia laurea non serve a un accidente. Di costruttivo, voglio dire. Aumenta solo il grado di frustrazione. E mi permette di scrivere post come questo (in effetti, non laureato, come avrei speso quesi venti minuti? forse lavorando).
Il paradosso di tutto questo è che, probabilmente, se si verificasse un cronosisma e tutto tornasse a dieci anni fa, rifarei esattamente tutto, o quasi, proprio come i protagonisti del romanzo di Vonnegut. Per testardaggine, temo.
E mi troverei comunque qui, a scrivere questo post. Esattamente dove dovrei essere.